Il progetto della Consultoria Queer di Bologna nasce da sperimentazioni e riflessioni già in corso in varie città, da una potente genealogia transfemminista e queer e dalla diffusa necessità di mettere in comune una politica delle soggettività che parta dal corpo, dalla sessualità e al contempo da una critica alle biopolitiche che si intensificano attorno a questo campo, nel contesto attuale di crisi e di ridefinizione dei rapporti di potere dentro al biocapitalismo.
Bisogni
Quello che sta emergendo a Bologna, come in altre città è la necessità di partire dalla materialità delle vite queer e di affrontare da questa prospettiva la nuova fase neoliberista, che vede una progressiva riduzione del welfare universalista fordista, una generalizzazione della precarietà che rende a sua volta generalizzabile anche la condizione queer/precaria, il bisogno di reddito, la necessità di creare reti di militanza e di mutualismo capaci di inventare nuove istituzioni. Per chi parte dal corpo e dalla sessualità come terreno di soggettivazione è importante quindi affrontare quel che resta della “salute sessuale e riproduttiva”, ovvero di ciò che il ciclo di lotte femministe e LGBT dagli anni ’70 e ’80 è riuscito a ottenere in termini di welfare. E’ in questo senso che ci riferiamo all’asperienza dei consultori, ricomprendendo, in una prospettiva queer i consultori rivolti alle donne, istituzionalizzati con la legge 194, i consultori trans nati per l’applicazione della 164, i consultori di prevenzione delle MTS nati in ambito prevalentemente gay e lesbico per fare fronte all’emergenza HIV/AIDS.
Genealogie
La prospettiva genealogica nella quale ci posizioniamo, ci porta a leggere i consultori da un punto di vista autonomo, come un prodotto delle lotte politiche e della capacità collettiva di creare nuove istituzioni dal basso espressa in varie fasi dalle soggettività “eccentriche” e “incarnate”.
Pensiamo al movimento femminista che, dentro al piano di rivendicazione di autodeterminazione del proprio corpo, della sessualità, della salute riproduttiva e del lavoro di riproduzione, ha creato i consultori come luogo di scambio di saperi, di conflitto, di resistenza. Pensiamo ai consultori trans, e in particolare all’esperienza del MIT di Bologna e dei consultori autogestiti dalle persone trans, che non solo solo ambulatori per il percorso della transizione, ma sono piuttosto costantemente investiti dei bisogni delle soggettività trans, dentro al conflitto e alla mediazione tra percorso medicalizzato, richiesta di depatologizzazione e autorganizzazione. Pensiamo ai gruppi di auto-aiuto sull’HIV/AIDS, che hanno rovesciato la stigmatizzazione della “peste gay” producendo informazione, mutuo aiuto, riappropriazione di saperi medici, conflittualità verso le istituzioni e le case farmaceutiche. Da questo punto di vista, riteniamo esemplare l’esperienza di Act-up negli USA e in Francia, ma anche l’Italia ha una sua storia su questo terreno che andrebbe valorizzata.
Il fatto che queste esperienze abbiano prodotto delle nuove istituzionalità dal basso, abbiano trasformato il welfare, siano poi state istituzionalizzate e progressivamente svuotate della loro valenza politica, non ci può distogliere dalla potenza sovversiva di esse, tanto più che oggi siamo ridotte a difendere ciò che ne resta e ciò che resta del welfare in generale. Ci troviamo quindi di fronte ad un bivio: possiamo aggrapparci ai resti, alle macerie di quel patto sociale o tentare di tracciare uno scarto.
Contesto
Una volta saltato il compromesso fordista attraverso la precarizzazione generalizzata del lavoro, infatti, le attuali politiche di austerity stanno finendo il lavoro di smantellamento dello stato sociale e con esso, inevitabilemnete, anche di quella parte di welfare che può andare sotto l’etichetta “salute sessuale e riproduttiva”. Come abbiamo visto nelle lotte sul welfare in Spagna, in Grecia, negli Occupy, e prima ancora in Argentina, i movimenti stanno sperimentando l’autogestione di presidi ospedalieri, per rispondere collettivamente ai bisogni primari mettendo in discussione i presupposti autoritari e gerarchici della sanità statale.
Appare chiaro, dunque, che per quanta riguarda il welfare della “salute sessuale e riproduttiva”, la semplice difesa dell’esistente – difesa del diritto d’aborto e della 194, difesa della 164, difesa dei presidi sulle MTS – è sempre più insufficiente e comunque difficile da organizzare, perché richiama solo gli attivisti/e che si riconoscono nella genealogia femminista e lgbt che abbiamo delineato. Inoltre, i bisogni espressi dalle soggettività vanno ben oltre la mera difesa delle conquiste del passato. La critica si estende a tutto campo al dispositivo di sessualità e alle biopolitiche, che non coincidono con gli apparati di stato.
Biopolitiche
Spesso, i consultori per la “salute sessuale e riproduttiva” risentono di una visione fortemente medicalizzante della sessualità, che tende a governarne tesioni ed eccedenze dal punto di vista biopolitico, riconducendoli al rapporto tra “individuo” e “popolazione”, nel campo della patologia e della riproduzione. Per disarticolare questi nessi, abbiamo dunque bisogno di una progettualità forte, che incroci le esperienze e i vissuti delle diverse soggettività, che si riappropri di corpi e piaceri dentro e contro il dispositivo di sessualità e oltre la medicalizzazione dei corpi, che resta l’asse portante delle biopolitiche.
Tuttavia, la dimensione biopolitica non si esaurisce a questo ambito, e occorre tenere presente come una serie di dispositivi finalizzati al controllo dei corpi e delle popolazioni sono fortemente individualizzati e specifici e al contempo interconnessi tra loro. Pensiamo, a fronte di un discorso pubblico neomoralista sulle condotte sessuali, a come questo si affianchi a un forte incitamento a una sessualità compulsiva e consumistica. Pensiamo alla funzione vittimizzante e di controllo biopolitico che assolvono certe retoriche contro la violenza maschile e omo/lesbo/transfobica. Pensiamo, riguardo sia alle donne che alle soggettività LGTQ, come alla medicalizzazione si affianchi un’ampia valorizzazione in senso capitalistico, attraverso il diversity management o gender/queer management.
Per tenere insieme una critica su tutti questi livelli, occorre quindi riattivare, ripensare e produrre un discorso e una pratica sulla sessualità che rompa le gabbie della medicalizzazione, che sappia intrecciare critiche situate senza riprodurre identità normative, che parli di salute in senso allargato come benessere sociale e non come gestione del normale e del patologico, che sia in una certa misura contra-sessuale, mettendo al centro i corpi e i piaceri contro il dispositivo di sessuo-desiderio egemone. Un percorso di sottrazione ai dispositivi di potere e di messa in comune delle esperienze, delle soggettività, dei saperi su corpo e sessualità che riapra conflitti e sperimentazioni su tutti i livelli – salute, welfare, reddito, altre relazioni di intimità – dal quale difendere il welfare residuo e le conquiste dei movimenti e immaginare nuove forme di welfare del comune.
Progettualità
E’ in questa cornice critica e genealogica e in questa contemporaneità si colloca il progetto della Consultoria Queer.
Il termine consultoria, nella sua ambivalenza che rimanda a servizi sanitari, sportelli e ambulatori, ma anche ai percorsi transfemministi e queer che abbiamo rievocato, vuole far saltare in prima istanza il piano di intersezione tra corpi/sessualità e potere medico/statuale. Non si tratta di fare un nuovo sportello e un nuovo ambulatorio, ma di creare uno spazio politico che avvolga e trasformi l’esistente risignificandolo nella pratica collettiva. Uno spazio politico nel quale tutte noi potenziali “utenti” e operatori dei consultori e delle istituzioni mediche in generale, possano confrontarsi tra pari scardinando la verticalità del rapporto medico/paziente o erogatore del servizio/utente. Una “stanza tutta per sé”, nella quale riaprire il discorso e la pratica sulla sessualità, sull’uso dei piaceri e la cura di sé come fondamenti del benessere sociale.
Pur riconoscendo la specificità di ognuno e ognuna e dando la possibilità di creare anche momenti e spazi separati per la condivisione di esperienze specifiche, l’attitudine della Consultoria sarà queer perché riconosce i dispositivi identitari come parte del problema, implicati come sono, in quel processo di “sussunzione differenziale” e di individualizzazione delle tecniche biopolitiche che sta intensificando il controllo sociale. Sarà queer perché abbiamo bisogno di incrociare gli sguardi critici per cogliere la migrazione e la polivalenza tattica di tecniche, discorsi e dispositivi: perché, ad esempio, senza la critica lesbo-femminista del genere come performance ripetitiva non saremmo arrivate a “vedere” la violenza della normalizzazione dell’intersessualità e quindi a contestare la chirurgia imposta in età neonatale. Pensiamo, infatti, la consultoria queer anche come spazio per la presa di parola delle soggettività intersex/DSD, per una riorganizzazione politica delle lotte transfemministe queer tanto su questo fronte, quanto sul fronte della violenza di genere e del genere. La consultoria queer deve pensarsi, quindi, anche come spazio fisico stabile, purché sappia mantenere un ruolo di attraversamento, di mappatura, di messa in circolazione di esperienze, di contaminazione e anche di eventuale indirizzamento di casi singoli nei “servizi” e/o negli spazi politici già esistenti.
Metodologia
Un’operazione così complessa e articolata può sembrare ambiziosa, ma non partiamo affatto da zero. In effetti, la stiamo già facendo da tempo, confrontandoci quotidianamente con bisogni e desideri nostri e delle reti politico-affettive che abitiamo, sostenendo i consultori per la salute trans o dando informazioni su ginecologhe non lesbofobiche, sulla reperibilità della pillola del giorno dopo, su come e dove fare il test gratuito per le MTS. In un certo senso, quindi, si tratta di ricomprendere in una prospettiva unificante una serie di micropolitiche già attive, potenziandole e valorizzandole attraverso la pratica politica collettiva, costruendo nuove relazioni e mettendo a punto quelle già esistenti, attraverso momenti assembleari e workshop specifici, mantenendo sempre attivo l’intreccio tra diverse soggettività i vari ambiti di intervento.
Provando a dare una descrizione dell’attuale “stato dei lavori” della Consultoria queer, possiamo partire proprio dalle soggettività che ne attraversano lo spazio. Lesbiche, gay, donne, uomini, trans e non, operatrici/ori del settore sanitario, ricercatrici/tori in alcuni ambiti scientifici si incontrano e discutono di questioni riguardanti salute sociale, sessualità e corpi. L’accento sulla composizione è fondamentale perché da un lato, consente di individuare la trasversalità e la molteplicità dei posizionamenti delle soggettività coivolte: non solo rispetto ai generi, ma anche rispetto all’appartenenza alle categorie sociali impegnate sul terreno della sanità/salute (dal medico medico, alla studiosa, all’utente). Dall’altro è proprio questa composizione che ci rende possibile il superamento della separazione delle identità e dei ruoli, mettendo a critica la gerarchia prodotta dal sapere biomedico: una gerarchia che non si concretizza esclusivamente nei manuali con cui vengono formate le figure mediche e istituzionali, ma che attraversa la quotidianità dei vissuti di ciascuno/a, condizionando anche la percezione che abbiamo di noi stess* e del nostro benessere. La Consultoria, dunque, non presuppone un soggetto specifico. Al contrario, si propone di adottare come punto di partenza i bisogni e i desideri che caratterizzano l’accesso alla salute delle molteplici soggettività “eccentriche”.
Per questo, rispetto alla scelta delle questioni da affrontare, abbiamo assunto la pratica femminista del “partire da sè”, evitando però di procedere a ritroso per cercare un livello di astrazione che comprendesse le esperienze di tutte in maniera equivalente. Al contrario, la scommessa è proprio quella di vedere i collegamenti meno scontati tra le diverse esperienze per decostruire i criteri di normalità propri dei protocolli di medicalizzazione, cominciando proprio da quelli che agiscono nel rapporto medico/paziente.
Prospettive
La Consultoria Queer, quindi, ha che fare con l’aborto, con il diritto alla salute e alla transizione, ma soprattutto con il diritto al benessere e alla trasformazione. Costruisce welfare dal basso, ma lo rivendica come reddito indiretto. E rivendica anche reddito diretto: per il lavoro di riproduzione sociale, perché benessere e autodeterminazione sessuale avrebbero innanzitutto bisogno di un reddito di autodeterminazione incondizionato. Pensiamo a quanto tempo ed energie potrebbero essere liberate dal ricatto del lavoro, riconoscendo un reddito universale come equa redistribuzione del valore prodotto dalla cooperazione sociale! Non vogliamo, infatti, che le nostre reti rispondano a una logica di emergenza o di sussidiarità, ovvero che si limitino a “tappare i buchi” del welfare statuale consentendogli di tirare a campare grazie al nostro lavoro gratuito: al contrario, vogliamo orientare il nostro agire politico verso la costruzione di relazioni mutualistiche nella lotta e nella resistenza, per reinventare e continuare a costruire insieme nuove “istituzioni”. In questo senso, anche la Consultoria è una macchina per la produzione e la riproduzione dello “sciopero dai generi”. Non si tratta di organizzare solo momenti puntuali e simultanei di sottrazione come nello sciopero tradizionale, ma, piuttosto, di alimentare un costante processo di auto-inchiesta su come le nostre identità e soggettività vengono normalizzate dai dispositivi biopolitici e sedotte dalla valorizzazione capitalistica, rivendicando l’eccedenza queer per trovare nuove forme di liber-azione generale.